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Il c.c.n.l. in ambito processuale, breve vademecum per utilizzarlo per far valere le proprie istanze

I contratti collettivi nazionali del lavoro sono le principali fonti del diritto del lavoro, pubblico e privato e, pertanto, fondamentale strumento per regolamentare le situazioni, anche conflittuali, inerenti i rapporti di lavoro. 


Se assai dibattute in dottrina e giurisprudenza sono le questioni sostanziali sull'applicabilità dei c.c.n.l. ai rapporti, ovvero sull'efficacia derogatrice dei primi rispetto alle fonti gerarchicamente superiori,  meno note, ma altrettanto essenziali al successo di una rivendicazione fondata (anche) sulla fonte negoziale, sono le criticità che possono sorgere nell'ambito processuale, sulle quali la recente giurisprudenza ha statuito princìpi chiari e uniformi, idonei a tracciare un quadro di regole utili per l'operatore del diritto. 


Vediamo i casi più recenti e significativi.

Per capire come l'utilizzo errato del c.c.n.l. possa comportare il rigetto della propria domanda giudiziale è sufficiente ripercorrere la vicenda processuale conclusasi con la sentenza di Cassazione del 24 gennaio 2018, n. 1760.


Il ricorso introduttivo di primo grado aveva censurato il rifiuto, da parte del datore di lavoro, di un periodo di aspettativa richiesta dal lavoratore, ma era omessa ogni specificazione circa la previsione contrattuale in forza della quale l'aspettativa avrebbe dovuto essere concessa (ndr: 27 del c.c.n.l. personale dei porti). 


A fronte del rigetto della domanda, nel giudizio d'appello il legale del lavoratore aveva dedotto la violazione dell'art. 27 citato (a norma del quale il datore di lavoro poteva concedere al dipendente in servizio da almeno tre anni un periodo di aspettativa per malattia oltre il periodo di conservazione del posto), ma la Corte d'appello aveva respinto il ricorso, asserendo trattarsi di domanda “nuova”, come tale inammissibile se dedotta per la prima volta in appello.


Nel successivo giudizio di legittimità, il legale del lavoratore censurava l'errore dei giudici di merito, in capo ai quali sussisterebbe un potere-dovere di “ricercare ed applicare la norma - di legge o di contratto collettivo - riferibile alla fattispecie concreta, eventualmente anche in contrasto con l'indicazione offertane dalla parte”, visto anche l'avvenuto deposito, nel primo e nel secondo grado di giudizio, del c.c.n.l. applicabile.


Sotto altro profilo, il ricorrente in Cassazione puntualizzava che l'indicazione della norma (art. 27 c.c.n.l. cit.) non poteva che considerarsi mera e consentita specificazione normativa, e non allegazione “nuova”.


Come si può notare, le eccezioni fatte valere dal lavoratore non appaiono illogiche, benché tutte accomunate dal presupposto che le disposizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro costituiscano “norme giuridiche, che il giudice è pertanto tenuto a ricercare ed applicare prescindendo dalle allegazioni di parte”. Ebbene, tale presupposto è inesorabilmente rifiutato dalla Suprema Corte, secondo la quale l'efficacia negoziale del c.c.n.l. comporta che ad esso non si applichi il principio “iura novit curia”, giacché il contenuto del contratto collettivo costituisce “un fatto che la parte attrice ha l'onere di allegare, al pari di ogni altro elemento di fatto costitutivo del proprio diritto”.


La natura “fattuale” del contratto collettivo cd. di diritto comune è avvalorata dal noto assunto secondo cui il c.c.n.l. opera come fonte contrattuale del rapporto di lavoro: i) in forza del richiamo ad esso contenuto nel contratto individuale, ovvero ii) per effetto della iscrizione delle parti del contratto individuale (ovvero, quanto meno, del datore di lavoro) alle organizzazioni di categoria che lo hanno sottoscritto, o ancora iii) in ragione della sua applicazione in via di fatto.


Se l'applicabilità di un c.c.n.l. come fonte di un rapporto determinato deve essere apprezzata dal giudice, a fortiori lo sarà il suo contenuto, che quindi deve essere oggetto di tempestiva allegazione, pena la decadenza di tale facoltà ex artt. 414 e 420 c.p.c. e conseguente inammissibilità in sede di gravame, per novità della domanda sotto il profilo della causa petendi (si veda in merito anche la recentissima ordinanza della Cassazione del 30 gennaio 2019, n.2759).


Le conclusioni sopra descritte non cambiano se raffrontate con il disposto dell'art. 425 c.p.c., comma 4. Il giudice, infatti, può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa, ma tale potere non può che essere esercitato in base alle allegazioni e deduzioni delle parti, restando la relativa eventualità pur sempre nell'ambito di applicazione del principio dispositivo e permanendo l'onere delle parti che vogliano far valere l'applicazione di un determinato contratto collettivo di provarne l'esistenza e di produrlo in giudizio. 


Come affermato dalla Cassazione in una nota sentenza del 16 settembre 2014, n. 19507, la discrezionalità concessa dall'art. 425 c.p.c. comma 4 appare limitata all'attività di scrutinio della rilevanza del contratto collettivo ai fini della decisione, con la conseguenza che l'eventuale giudizio positivo di rilevanza dà luogo ad un dovere di acquisizione.


Lo stesso Giudice di legittimità ha altresì dichiarato di escludere che la riforma di cui all'art.2 D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 abbia inciso sui princìpi summenzionati (si legga la citata sentenza 1760/2018, in motivazione). 


Ricordiamo che la norma, modificando l'art. 360 c.p.c., ha sancito che le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possano essere impugnate con ricorso per cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”. Con tale riforma, il ricorrente in Cassazione ha oggi la possibilità di denunciare direttamente in sede di legittimità il vizio di violazione o falsa applicazione di contratti collettivi nazionali di lavoro, analogamente a quanto avviene con riferimento alle norme di diritto. 


A riguardo, la pronuncia di Cassazione del 2018 ha sancito che la norma avesse inteso estendere la funzione di nomofilachia anche nei confronti dei contratti collettivi: in buona sostanza, si assisterebbe alla parificazione, sul piano processuale, dei “contratti o accordi collettivi di lavoro” alle “norme di diritto” ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1 e 2.


Pertanto, una pronuncia per violazione o falsa applicazione di norme dei contratti collettivi dà luogo all'enunciazione del principio di diritto ai sensi dell'art. 384 c.p.c. comma 1, nonché alla decisione della causa nel merito, ai sensi del comma 2, quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (sul punto si veda anche l'ordinanza di Cassazione del 19 agosto 2016, n. 17231).


Va, poi, considerato che, se pure è vero che gli Ermellini, nell'esercizio del potere di interpretare i contratti collettivi nazionali, devono potere disporre di tutti gli elementi occorrenti per la ricostruzione della volontà contrattuale, onde assicurare quell'uniformità e certezza ermeneutica che è lo scopo dell'art. 360 c.p.c. come attualmente formulato, tuttavia vi è un diverso atteggiarsi del concetto di “conoscibilità” della fonte, a seconda che si tratti di c.c.n.l. privatistico o di c.c.n.l. del pubblico impiego.


A differenza della legge e dei contratti collettivi del pubblico impiego (pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale), infatti, il c.c.n.l. privatistico non è conoscibile se non con la collaborazione (onere di allegazione e di produzione) delle parti. 


Con riferimento al c.c.n.l. del pubblico impiego, invece, si segnala la sentenza di Cassazione del 5 marzo 2019 n.6394, che giunge alle medesime conclusioni sopra enunciate, muovendo da un presupposto diverso; nella fattispecie concreta, il giudice d'appello era censurato per asserito vizio di extrapetizione per aver dato alla domanda una qualificazione giuridica diversa da quella adottata dal giudice di primo grado e mai prospettata dalla parti. 


Tuttavia, trattandosi di giudizio inerente il rapporto di pubblico impiego, secondo la Suprema Corte il compito del giudice (anche d'appello) è quello di individuare correttamente la legge applicabile, “non essendo egli vincolato dalle parti nel potere di qualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata, ben potendo sussumerli in altra fattispecie normativa ove essi siano con quest'ultima astrattamente compatibili”.


In definitiva, ciò che emerge dal quadro di una giurisprudenza compatta e consolidata, è principalmente che la conoscibilità ex officio di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un'ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego; mentre nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell'adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell'onere della prova e sul contraddittorio, che non vengono meno neppure nell'ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425 c.p.c., comma 4, nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, giusta il principio “iura novit curia”.


Questo articolo è stato pubblicato sul portale Consulenza.it










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